Erano mesi, per essere esatti quattro, che rimaneva in silenzio; e finalmente, tra qualche giorno, sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe parlato, e per più di tre ore.
Il giorno del suo spettacolo, del suo monologo, era infatti arrivato.
Dal giorno in cui ricevette la conferma che il suo testo aveva passato le ultime selezioni del concorso organizzato dal Teatro Centrale, e che quindi sarebbe andato in scena all’interno del Festival del Teatro di primavera, seppur mettendoci giorni per convincersene davvero fino in fondo, da quel momento Arturo Mercadini non fece altro che prepararsi per il fatidico giorno.
Giorno dopo giorno, aveva passato tutto il suo tempo a rivedere il testo, studiandolo fino ad impararlo alla perfezione, allenando il fiato e la voce con infiniti esercizi di respirazione e di vocalizzazione, provando davanti al muro di camera sua, volta dopo volta, tutto lo spettacolo, e le posture del corpo, e le espressioni del viso… Aveva smesso di uscire di casa, se non per bisogni primari come comprare da mangiare o per obbligazioni dalle quali proprio non poteva esimersi, e basta.
Oddio, non che prima fosse molto diverso, Mercadini mi era sempre sembrato una persona molto timida, riservata a tal punto da sembrare misteriosa, e come poi mi ha confermato lui, non era certo un gran viveur e una persona estremamente sociale o con un’enorme vita pubblica ; ma anche quelle poche uscite che prima si concedeva, di tanto in tanto, adesso se le era vietate, tutta la sua energia doveva andare alla preparazione in vista del grande momento. E, in effetti, quando poi ci feci caso a seguito del suo racconto, era parecchio tempo che non lo incontravo più come prima, quando una due volte la settimana capitava di incrociarsi sulla rampa delle scale o nell’ingresso del portone, o presso l’ascensore. Non posso certo dire che lo conoscessi bene o ancor meno che fossimo amici : avevo con lui quel classico rapporto che possono avere due persone educate che vivono nello stesso edificio, nel nostro come in qualsiasi altro quartiere popolare del mondo. Qualche saluto o frase di circostanza, qualche gentilezza o ringraziamento nel condividere magari l’ascensore: uno di quei classici rapporti, per questo tipo di relazione, tra inquilini che non si conosco tra loro, e che magari mai si conosceranno meglio, che ogni tanto si trovano a condividere spazi comuni e tempi di attesa.
Di lui tutto, perfino il suo nome, per dirti, con l’insieme di cose che ti ho appena accennato sulla sua vita e i suoi ultimi mesi, l’ho saputo quando l’altra mattina, per la prima volta, abbiamo fatto due chiacchiere.
Come descrivertelo…. Mercadini, Arturo Mercadini: sulla quarantina d’anni, ma che avrebbero potuto essere tranquillamente venti di più, sembrava che da molto molto tempo non gli importasse più di niente e di nessuno (se non esclusivamente del teatro, come tenne a puntualizzarmi); con un non so che del clochard, e per l’aspetto e per l’odore che lasciava al suo passaggio; alto, non meno di un metro e novanta, per almeno cento chili di peso: un vecchio armadio sudicio e abbandonato in una casa da parecchio tempo disabitata. Così, trasandato nell’immagine che dava di sé e nel mondo di tirarsi dietro i piedi quando camminava, l’ho sempre visto, in quei rari incontri, sempre avvolto in un lungo vecchio e sdrucito cappotto, indipendentemente dalle stagioni.
Dall’aria sempre trasognata (se non rincoglionita), portava in giro la sua enorme testa, riccioluta e capelluta, nella quale, a causa della fitta e folta barba che non sembrava tagliare da tempo immemore, a fatica si riuscivano a distinguere i tratti del viso. Ogni volta che mi trovavo a salutarlo o ringraziarlo per avermi lasciato la porta dell’ascensore aperto, per esempio, sembrava doverci mettere qualche secondo prima di capire e di mettere a fuoco da dove la mia voce gli stesse arrivando, e, come fosse rapito da chissà quali pensieri, mi rispondeva sempre di fretta, e senza mai degnarmi d’uno sguardo.
Con il sogno sin da piccolo di diventare una figura di rilievo del teatro contemporaneo, nonostante la vita sembrava volergli far perdere la speranza in tutti in modi, da quando sedici anni prima era uscito dalla scuola d’arte drammatica, lui, non si era mai perso d’animo, conscio e certo del proprio valore.
Oh, ti ricordo che tutte queste cose che ti sto raccontando sul suo conto le ho sapute direttamente da lui, senza poter sapere quanto ci sia di vero o meno: era altrimenti per me un perfetto sconosciuto, fino a quel momento. Quando l’altro giorno, come ti dicevo, venne verso di me, come qualcuno che avesse finalmente deciso di parlare ad uno strano essere che qualche volta gli capitava d’incontrare. Solo al vederlo avvicinare, prima ancora che mi rivolgesse la parola, capii che qualcosa non andava, quasi mi spaventai credendo senza capirne la ragione che volesse aggredirmi, tanto sembrava sconvolto e iroso. Non riusciva a capacitarsi e non voleva esserne vittima, così farneticava gesticolando, delle disposizioni prese dal governo per cercare in qualche modo di fermare il virus che seminava (e ancora semina) morte in città: Confinamento per tre mesi, tutto chiuso, ma ci rendiamo conto? Stiamo scherzando?
Ma dalla sua espressione stravolta, tutto poteva sembrare tranne che uno scherzo.
E ripeteva, scaldandosi sempre più: Confinamento per tre mesi, almeno, ma ci rendiamo conto?
Avrà ripetuto queste parole, sempre uguali se non per qualche aggettivo o avverbio che di tanto in tanto alzasse il pathos della sua lamentela, per tutto il tempo che siamo rimasti a parlare, con le mani e gli occhi rivolti al cielo, come pregando non si sa quale Dio affinché facesse rinsavire il governo e sopratutto gli permettesse di andare in scena come era previsto di lì a qualche giorno. Dopo tutto questo tempo, capisce… continuava, come posseduto: Una vita ad aspettare la giusta occasione, una vita di merda per arrivarci, e, proprio quando finalmente la vita sembra volerti dare l’opportunità che meriti: Pandemia! Confinamento per tre mesi, ma ci rendiamo conto?!
Non solo non avrò più modo di fare il mio spettacolo, ma per prepararmici ho lasciato tutti gli stupidi lavori che facevo prima per vivere, per sopravvivere, certo del pagamento per il mio testo e del conseguente successo che inevitabilmente in seguito mi sarebbe piombato addosso.
E ora, che non ho più nessuno di questi svilenti lavori, nemmeno il becco d’un quattrino: Confinamento per tre mesi, ma ci rendiamo conto?!
Adesso, io non so come sia o, per meglio dire forse, fosse stato il suo monologo, ma a guardarlo in quel momento, quando per più di mezz’ora mi tenne lì immobile ad assistere al suo sfogo, mi dissi, che il suo spettacolo avrebbe certamente potuto essere divertente.
…Oddio, cosa dico, forse non dovrei parlare così d’un morto, come prendendolo in giro per questi fatti, dopo che forse proprio per ciò si è suicidato. Ma ti assicuro che, nel guardarlo raccontarmi tutto ciò, non certo come sto facendo io ora, per i continui intercalari di sfogo e d’eccitazione con cui inframezzava il tutto, e gli sbuffi profondi e i suoni gutturali, il suo gesticolare, le sue espressioni del viso, mi dicevo proprio che il nostro Arturo Mercadini avrebbe effettivamente potuto essere un attore di successo. Per tutto quel tempo infatti, di fronte a lui, rimasi immobile come ipnotizzato, risposi solo con piccoli gesti del capo, o, quando le sue pause un pò più lunghe me lo permettevano, con rapidi monosillabi.
Del resto, cosa potrei fare per lui, se non addolorarmi come tutti una volta appresa la triste notizia: una persona che ha deciso di togliersi la vita nel tuo stesso edificio, scioccherebbe chiunque, anche chi quella persona, come me appunto, nemmeno quasi la conoscesse. E venire a sapere di lui queste informazioni, così poco tempo prima del suo gesto estremo, qualche dettaglio della sua vita, che a ben riflettere potrebbe anche mettere luce alla sua scelta estrema, non dovrebbe essere altro che un’occasione per ricordarlo e parlarne, senza per questo mancare di rispetto a nessuno.
E così, dopo oramai un’ora di monologo, fatto sempre quasi gridando dalla rabbia o con voce profonda e minacciosa quando mi guardava dritto negli occhi, come era arrivato, forse ancora più trafelato di com’era arrivato, buttò lì un ultimo: Tre mesi di confinamento, tre mesi!, ma ci rendiamo conto?!, e se ne andò. Quasi di corsa, come scappando da qualcuno che di colpo aveva visto sopraggiungere, o solo cercando di fuggire la sua stessa rabbia, si girò di scatto e infilò il portone.
Che dire di fronte a un suicidio? niente. Se a suicidarsi è una persona che poco o niente si conosce, e senza che questi abbia lasciato una lettera per qualcuno o un biglietto per cercare di spiegarne le motivazioni, beh, c’è veramente poco da dire al riguardo.
Forse, se solo non avesse dedicato tutta la sua vita a quel momento, che poi, per una ragione imprevedibile, non è arrivato, non sarebbe giunto a questa indegna conclusione; o, magari, questa è stata solo una scusa per porre fine ad una vita infelice, chissà…
Tutto quel tempo dedicato ad un sogno, per poi svegliarsi un giorno e realizzare che l’oggetto di quel sognare, nella vita vera, non avrà mai luogo… tutto quel tempo sprecato!
Ma, per l’uomo, può essere il tempo, veramente, una questione vitale? O dovrebbe esserlo, piuttosto, il proprio sogno personale? Può essere il tempo l’unità di misura, in assoluto la più importante, della vita di un uomo? O dovrebbe esserlo appunto il suo sogno, e la passione impiegata per la sua realizzazione, indipendentemente che poi si realizzi o meno?
Del resto, pandemia o meno, se quel giorno non fosse per lui mai arrivato, prima o poi, il sognatore che era in lui si sarebbe stancato, ne sarebbe morto, e, arrivato allo stremo delle forze, si sarebbe arreso all’evidenza di una realtà infelice. E quindi perché non accettare chi abbia voluto una buona volta mettere fine alle proprie sofferenze, alle proprie speranza disattese, e decidere di farlo con l’unico gesto che possa veramente determinare il tempo della propria vita: il suicidio.
Certo è che, se a essere onesti non posso dire mi mancherà il fatto d’incontrarlo per le scale, una cosa la devo proprio ammettere: dopo averlo conosciuto, anche per quel poco che di lui ho conosciuto l’altro giorno, adesso sarei andato volentieri a vedere il suo spettacolo, di cui ora, purtroppo, non mi rimarrà nient’altro che la curiosità; e magari, chissà, avrei potuto, sapendo la sua situazione per tempo, fare perfino qualcosa per aiutarlo nel realizzarlo…
Certe volte, a saperlo prima…
*Mailhac, 03 2020
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