Seduto viso al bianco, il piccolo uomo
appariva stanco, della sua vita
andava rivedendo istanti, nel mezzogiorno
del suo tempo passato, di quel tempo
da sempre vincitore, fino alla notte
fino alla morte.
Ma ricordi a parte,
sapeva di poter certo affermare
di non avere grossi rimpianti:
erano proprio i pianti, e le tante risa,
a mostrargli d’aver vissuto la sua vita.
Rimpiangeva solamente
di non aver mai avuto la virtù,
la più grande tra tutte le virtù,
quella dello stolto e del sogno:
l’inconsapevolezza.
L’inconsapevolezza
di quella campana
che batte le nostre ore,
come in quel frangente.
Spostandosi la frangia
come per schiarirsi la mente,
andava valutando, solo
dove si trovasse adesso.
Addossato e già spossato
all’eterno bisogno dell’uomo,
la necessità di accettarsi,
accettare tutti quei difetti
che sono rimasti,
se poi difetti sono,
che non si è riusciti a toglier via
da sé, pur smussando a lungo
tutti quegli angoli che per forza
sono tanti in quel giovane
che della sua gioventù
faccia unico diamante.
Amante da sempre della vita,
cominciava ora sempre più
a flirtare timido con la morte,
pensandola troppo di frequente,
come un incubo ricorrente
come un pensiero d’imprenscindibile imminenza.
E se è pur vero che per tutti
arriva sua eminenza la morte,
a un dato momento
chi abbia pensiero
per forza ci pensa;
per questo in quel giorno
senza sempre e senza mai,
in quel caldo mezzogiorno,
pensava oramai
di più a ciò che è stato,
che a quel che sarà.
Perché per tutti, prima o poi,
arriva la notte, è vero,
ma impegnarsi tutto il giorno,
che abbiamo a nostra disposizione,
è di sicuro la miglior disposizione
per infine chiudere gli occhi, soddisfatti
e poter dormire sereni.
*Mailhac 05 2020
*IMAGE: Felice Giani