IL TELESCOPIO – Racconto

stelle telescopio bambino papà

FRENCH VERSION

 

 
«Adam, smettila di trastullarti con quel coso, vieni a mangiare prima che si freddi! Non è possibile che passi tutte le tue sere a perdere così il tuo tempo! Mi chiedo perché non puoi fare come i tuoi fratelli?! Perché non fai come tutti gli altri bambini della tua età?! Ma cosa ho fatto io di male per avere un figlio così…».
Adam, nel buio della sua stanza, chiuso a chiave per non venir disturbato, dall’abitudine oramai non sentiva nemmeno più le grida quotidiane della madre. Come un martello pneumatico, che batte ogni giorno sotto la finestra di casa, dopo un po’ di tempo ci si rassegna e si finisce per non sentirlo nemmeno più; o quanto meno, se ne accetta il fracasso come un qualsiasi altro rumore e, senza lasciarsene innervosire, si attende solo che finisca.
“Quel coso”, come lo chiamava sua mamma, era il telescopio Schmidt-Cassegrain, che il padre gli aveva comperato per il suo ottavo compleanno, quattro anni prima. Adam adorava quel regalo, amava passare il tempo a guardar le stelle, i pianeti, e tutto il magnifico universo che quel telescopio poteva offrire. E lo faceva sempre con suo papà, che era il suo migliore amico, a dire il vero, il suo unico amico. Era da sempre stato un bambino particolare: sin da piccolo, non era mai stato attratto da tutto ciò che piaceva agli altri coetanei: solo con suo padre parlava e passava il tempo, se non da solo leggendo.
Suo padre conduceva un po’ la stessa vita isolata. Certo aveva una vita più “normale”, con un lavoro e delle responsabilità da “adulto” e una famiglia, ma se parlava con la moglie, sembrava essere solo per litigare e con gli altri figli, i due fratelli d’Adam (gemelli e di due anni più grandi), non aveva certo questo tipo di rapporto che aveva con lui. Rapporto che suo padre non aveva nemmeno con i suoi amici. Da quando si erano trasferiti nella città dove era nata la moglie Ansia, tutte le settimane invitavano due coppie di amici a cena, in realtà tutti amici di lei e sempre più noiosi, per vedere la partita della domenica sera.
Non importava le squadre che giocassero, l’importante era ritrovarsi tutti a mangiare sempre la stessa pizza con le stesse birre, incollati al televisore. Il padre, che odiava il calcio, come del resto Adam, non aspettava altro che finire la pizza e, profittando dell’ipnosi data dal match alla tele, scappare a rifugiarsi nella cameretta al piano di sopra, a guardare insieme al figlio le stelle, dal loro piccolo mondo privato e segreto. Anche durante la settimana, per entrambi, il solo bel momento della giornata era quello: trovarsi insieme, chiusi a chiave, confinati per non farsi disturbare, nella stanza di Adam, a fantasticare su tutte le altre forme di vita che si potevano nascondere dietro quei puntini luminosi che decoravano il cielo.
Adesso il padre non c’era più: morto di cancro in una ghiacciata notte di dicembre. Ora Adam era rimasto solo: in quella cameretta a guardare le stelle, la notte, solo a immaginare vite diverse e migliori in quel fascio di pianeti, che solo il suo telescopio, oramai, poteva fargli vedere.
«Allora vieni giù a mangiare o no?! I tuoi fratelli hanno già mangiato! Un giorno o l’altro te lo butto via quello stupido coso, e finalmente magari comincerai ad interessarti di più ai tuoi compiti di scuola o a giocare ai videogame, o a guardare la tele insieme a noi, come fa qualsiasi altro sano bambino della tua età…».
La madre continuava ad abbaiare dietro la porta, ben conoscendo l’unica minaccia in grado di smuovere l’occhio del figlio dal suo Schmidt-Cassegrain, la minaccia un giorno di buttarglielo via.
Scese le scale, la scena era sempre la stessa di ogni sera, di ogni giorno: i due fratelli seduti per terra ai piedi del televisore, attaccati alla playstation, indemoniati gridavano e si arrabbiavano, mentre sullo schermo erano intenti a sparare e massacrare tutto quello che si muoveva. Gli occhi iniettati di sangue, i due gemelli passavano così la più parte del loro tempo, nella babele assordante e alienante di quel videogioco che tanto amavano e dalla categoria emblematica: uno spara-tutto.
Una volta superato quel campo d’odio e di guerra casalinga, poi non del tutto così virtuale, riusciva completamente assordato a raggiungere la cucina.
In cucina: altra solita, diversa ma non del tutto, scena: la madre, che con una spalla teneva il telefono intenta a raccontare, come ogni giorno, la propria estenuante giornata all’amica, era impegnata a lavare i piatti della cena. In un baccano da mensa scolastica, più che parlare, urlava nel telefono. Il tono di voce della madre non si riusciva mai veramente ad interpretarlo: non si capiva mai chiaramente se fosse arrabbiata come ogni giorno per qualcosa, o fosse solo per sovrastare con la voce la guerra che sopraggiungeva dall’altra stanza, o gli spari che arrivavano dal televisore vicino al micro-onde (alla tele: “Distretto di Polizia 19”, la sua serie preferita, come quella dell’intera nazione, visto il successo di repliche).
Ogni volta che Adam abbandonava le stelle per atterrare in cucina, si sentiva come un alieno catapultato all’improvviso in un mondo di pazzi frenetici. Provava quella sensazione che si potrebbe avere nello svegliarsi da un profondo sogno per ritrovarsi nel bel mezzo della metropolitana nell’ora di punta. Aveva una tale sensazione di distacco da loro, dai loro movimenti nevrotici e caotici, che era come se vivessero la vita a ritmi differenti, come se appartenessero a due mondi diversi.
Nessuno di loro, i fratelli e nemmeno la mamma che tanto lo reclamava sbraitando qualche istante prima, sembrava accorgersi di lui. Un essere così silenzioso non aveva spazio nel loro mondo.
A tenere compagnia alle quattro sedie vuote, sulla tavola rotonda, c’era il suo piatto, la sua cena, o per lo meno quello che i fratelli gli avevano lasciato, in genere solo le verdure. Solo il gatto, unico altro lascito del padre insieme al telescopio, sembrava attendere con ansia il suo arrivo, cercandolo con gli occhi come un disperato, alla ricerca della sola persona normale della casa. In una taciturna intesa di sguardi mentre mangiavano veloci la loro cena, Adam a tavola e il gatto ai suoi piedi, guardavano fuori dalla finestra le stelle, silenziose compagne, che erano lì a dar loro fiducia in un mondo migliore, o anche solamente diverso da quello che erano costretti a vivere. Appena finito, risalivano poi velocemente le scale per andare a chiudersi in camera, lasciando quell’incubo chiuso fuori dalla porta, almeno fino la mattina seguente.
«Buonanotte». Come sempre nessuno gli rispose: tutti troppo intenti a far qualcosa, o a far niente della loro vita, per rispondergli. Ma Adam non perdeva la speranza, continuava ad augurargliela prima di salire le scale tutte le sere, fosse anche solo per verificare se degli esseri così differenti da lui, quantomeno, parlassero la sua stessa lingua.

«Non devi mai perdere la speranza. Anche quando tutto quello che vedi intorno a te, e ancor più crescendo vedrai, non ti dovesse piacere. Se ti dovessi sentire solo in un mondo che non capisci, che vedi diverso, impossibile per te, non devi mai perdere la speranza. Solo così eviterai di farti cambiare da Loro, dalla società, da quelli che oggi chiami “gli adulti”. Cercheranno in ogni maniera di farti diventare come loro, di farti dimenticare la tua infanzia, di farti gettare nell’Oblio tutto quello che vuol dire essere un Bambino.
Per forza di cose crescerai, diventerai grande, non solo fisicamente ma anche mentalmente, e ciò è bene: mi ricordo ancora come mi sentivo incompleto da giovane, ai mille difetti che pensavo di avere, e invece ero solo un adolescente. La rivoluzione che t’inspirerà la giovinezza ti dovrà rimanere sempre in mente, per far si che il tuo maturare sia un’evoluzione di quella gioventù, e non la fine. Capirai meglio il fanciullo che sei stato quando sarai un vero e proprio uomo e i problemi che pensavi di avere avranno forse una risposta. O forse, più semplicemente, capirai che spesso è inutile cercare una risposta, che ci son domande che non la prevedono neppure e, pur continuando a fartele, imparerai a vivere e non a cercare di sopravvivere con le risposte che gli altri ti daranno come veritiere.
E se oggi ti tacciano come diverso, come un bambino “strano”, beh, resta così: nessun bambino “normale” è poi diventato Qualcuno nella sua vita, al massimo si è poi trasformato in un numero utile per la massa, chessò: impiegato in banca o per lo stato, poliziotto o vigile urbano… Tu continua a dire di no a chi ti vorrà far smettere di sognare, di inseguire i tuoi sogni.
Mira sempre alle stelle, male che vada cadrai comunque più lontano di chi pensa che bisogna restare sempre coi piedi per terra.
Non fare come me. Sempre si dice di seguire l’esempio dei genitori, di onorarli… Non è che voglia dirti il contrario, sarei triste se un giorno non mi volessi più bene così come me ne vuoi oggi, ma un giorno ricorda che dovrai staccarti da noi, dalla tua famiglia. Solo saltando nel vuoto, potrai un giorno imparare a volare, e più che dirti come funzionano le ali noi genitori non possiamo fare. Il resto lo devi fare tu, da solo, andando in giro per il mondo a cercare altre persone come te, che magari non troveresti mai dove sei nato, vedere altre realtà diverse dalla tua, non per forza migliori o peggiori, ma giusto diverse. La diversità è fondamentale, un valore che devi presto imparare.
Il problema di questa nostra epoca, dove si parla tanto di libertà, e di passi in avanti ne son stati fatti parecchi al proposito, è che si tratta di una libertà confusa, il cui senso è stato manipolato, che è diventata globalizzazione e appiattimento della diversità, delle culture e delle tradizioni, dei modi di pensare o vivere la vita, di tutto.
Rispetta sempre chi è diverso da te, cerca almeno di capirne la posizione, ascolta cosa ha da dire. E se continuate a rimanere diversi, fai in modo che la sua libertà non leda mai la tua; combatti sempre perché ognuno possa dire quello che pensa, anche se questi pensieri dovessero andare contro i tuoi.
Rispetta sempre tua madre, che se anche oggi la puoi vedere in modo strano, magari come una donna cattiva o solo “diversa” da te, è comunque la tua mamma, e nel miglior modo possibile ha cercato di crescerti. Non ci son corsi per farlo, s’impara da soli e non tutti ci riescono nel migliore dei modi. Un modo migliore semplicemente non esiste, tu amala sempre.
Ma non lasciarti mai condizionare dall’amore di qualcuno, per fare o meno ciò che pensi sia meglio per te: fai sempre quello che reputi giusto; al massimo ti sbaglierai, cadrai, ma ti rialzerai e riproverai. Solo così si diventa veramente un Uomo, e non giusto un noioso adulto. Ama gli altri come te stesso, ma sopratutto prima impara ad amare te stesso».
«Ma perché hai detto non fare come me?» Con gli occhi attenti, Adam, cercava di capire quello che il padre stava cercando di dirgli.
«Tu non sei come gli altri adulti, gli somigli molto, ma io vedo la differenza, e anche Shamalù, ne sono convinto». Il gatto acconsentì con gli occhi e con la testa.
«Può darsi tu la veda, come la veda il gatto, questa differenza: anche io mi sento spesso solo in questo mondo di adulti, dove il necessario, o per lo meno quello che questa società ci fa credere tale, prende il posto del veramente essenziale, il quotidiano e la realtà sopravvivono a scapito dell’immaginario e del sogno personale. Ci son giorni dove mi guardo allo specchio e non mi riconosco più. Mi sento uguale a loro, uguale a tutti quei volti grigi che la mattina vedo andare al lavoro in macchina, che hanno dimenticato che la cosa più bella del mondo è gratis, ed è tutti i giorni a loro disposizione, sopra le loro teste: il cielo. Con le sue nuvole, gli uccelli, il sole e la luna, la pioggia e la neve. E le stelle… Da bambino amavo le stelle, passavo intere notti sdraiato nell’erba a guardarle, a immaginarmi mondi lontani e diversi dal nostro. Tuo nonno mi aveva iniziato a questa pratica, aveva un gran bel telescopio artigianale, che da piccolo si era costruito da solo, tuo nonno da giovane, era già un super ingegnerie sai… finché un giorno mi son scordato di come fosse bello guardarle, senza saperne i nomi o le posizioni, giusto guardarle, così, per ore, e fantasticare…. finché un giorno non ho avuto più tempo per farlo».
«E come mai te ne sei dimenticato papà?»
«Come mai…? Come mai…? Non lo so, sai… o meglio, non mi ricordo quando esattamente, ma è andata così: quando avevo quattordici anni, papà, il mio papà, è morto in guerra, lasciando tua nonna con me e altre 5 bocche da sfamare (le tue zie). Di tempo per giocare, una volta diventato l’unico uomo della famiglia, non ne rimaneva molto. Anzi, non ne avevo più: iniziai subito a lavorare e quando non lavoravo, aiutavo mia mamma in casa; la sera arrivavo talmente stanco che non riuscivo nemmeno più a tenere la testa alta. Con gli occhi fissi per terra, avevo solo un desiderio: andare a dormire. Per la fatica non sognavo nemmeno più, e così, da un giorno con l’altro, mi son scordato delle stelle…».
Era come se ancora adesso lo avesse di fronte a sé, suo papà, ancora vivo in quel momento, nel pomeriggio in cui gli aveva enunciato tutti quei comandamenti per diventare un adulto felice. Quel giorno poi, come se si fosse perso nei ricordi della sua gioventù da troppo tempo andata, suo padre restò a guardare nel vuoto alcuni secondi, mentre Adam lo guardava come si potrebbe guardare da vicino il proprio idolo, intensamente, senza esser percepito. Alcuni secondi che, in Adam goloso di quell’immagine di suo padre ora scomparso, sarebbero rimasti impressi nella mente per sempre.
Finché poi concluse: «Sai, io ho già fatto molto nella vita. Ora tu sei già quasi un ometto e viviamo in una posizione agiata rispetto a molta parte del mondo. Sei un ragazzo fortunato, non lo scordare, sfrutta questa tua fortuna per essere felice, e per far qualcosa di buono per altri che meritino la tua felicità, ma che per varie ragioni non possano permettersela. Io son da tempo malato, mi sento stanco… non ci sarò per sempre…».
In Adam, le lacrime che gli sgorgarono quel giorno spontanee al suono di «non ci sarò per sempre», ancora adesso erompevano come quella prima volta: irrefrenabili. Oggi ancora più amare, perché malinconiche di quei giorni andati, perché consce di quello che volevano dire: il padre morì qualche mese dopo, di cancro.
«Io non ci sarò per sempre, ma le stelle sì. Loro ti guarderanno sempre da lontano, anche quando tu non alzerai gli occhi per vederle o non le vedrai perché avrai la vista offuscata dalle nebbie della vita, loro veglieranno su di te. Tu non ti scordar mai di loro.
E un giorno, quando cercherai una risposta, quando vorrai guardar qualcosa di diverso da quello che ti sta intorno, alza la testa, e le stelle saranno lì, sempre, tue fedeli amiche. Le stesse che guarderemo stasera io e te, anche se un giorno le guarderai da solo, resteranno le medesime, e sarà come continuare a guardarle insieme, anche se quel giorno saremo lontani. E adesso basta parlare! Vestiti che andiamo, ho trovato il regalo che voglio farti per i tuoi otto anni: andiamo a prendere il telescopio più bello della Terra!»

Rientrato in stanza e chiusa la porta, era come immergersi in una bolla, come quando metteva la testa sott’acqua mentre faceva il bagno: tutti i rumori del mondo esterno venivano attutiti, perdevano il loro fracasso, per divenire giusto delle vibrazioni lontane. Chiusa la porta della stanza, quella sera, gli si era aperta quella dei ricordi: quella del giorno in cui suo padre gli aveva annunciato la sua malattia, e gli aveva anche detto un sacco di cose belle che mai avrebbe potuto scordare: i ricordi di quel giorno in cui suo padre gli aveva regalato il telescopio.
Ora quel telescopio lo stava guardando, come sempre affacciato alla finestra, sembrava aspettarlo, come a dirgli: «Bé, ti ricordi quindi, hai sentito cosa ha detto tuo padre no?! Su, lascia stare quel mondo di adulti e vieni a guardare le stelle, che è già da un po’ che ti stanno aspettando tutte in cielo».
Il telescopio Schmidt-Cassegrain, il gatto Shamalù, e le stelle in cielo: quello era il mondo a cui apparteneva Adam, quello in cui era felice d’essere se stesso. Non è che avesse poi grandi problemi con se stesso, o con la sua diversità dagli altri, ma era piuttosto vero il contrario, cioè che erano gli altri a non poter accettare che lui non fosse uguale a loro, in tutto e per tutto. A scuola, i compagni gli davano del gay perché non amava il calcio, aggettivo usato anche dalle ragazze, che amavano guardare i ragazzi mentre giocavano a pallone, durante l’ora di ricreazione. A casa, le cose non andavano meglio: coi fratelli quasi non aveva rapporti, se non per subirne gli insulti gratuiti e gli scherzi, ai quali oramai non faceva nemmeno più caso. E sua mamma… sua mamma… non aveva mai capito come quella donna potesse essere stata la moglie di suo padre.
Ma lui era contento per come era, non voleva certo essere come gli altri, o sforzarsi e dannarsi per provare ad assomigliar a loro. Se riusciva a sentirsi bene nonostante tutto, era sopratutto grazie al ricordo delle parole del padre, per il fatto quindi di aver avuto la conferma un giorno, che anche suo papà era come lui: un pesce fuor d’acqua in un mondo di alieni.
Quando appoggiava il suo occhio alla lente per vedere le stelle, scordava immediatamente tutto quello che poteva vedere di giorno intorno a lui: lassù nel cielo, niente di quello che contava sulla piccola Terra aveva alcun significato. Nell’universo, tutte le stelle e i pianeti non si interessavano minimamente alle cose terrestri, di colpo Adam non si sentiva più solo. E come quel primo giorno, quando suo padre lo iniziò all’uso di quel prezioso strumento, ancora adesso ci si avvicinava sempre con la stessa emozione; soltanto che oggi, dopo quattro anni, ne era diventato un esperto utilizzatore e non più solamente quel bambino curioso che faceva persino fatica a capire come guardarci dentro.
«Vedi, allora… questo che abbiamo preso oggi è un telescopio Schimdt-Cassegrain, cioè un telescopio catadiottrico, un telescopio che utilizza un sistema compatto di specchi sferici. Un telescopio catadiottrico è un tipo di telescopio che si basa su un sistema ottico costituito da specchi e lenti… Capisco che quello che ti sto dicendo possa suonare come arabo per un bambino, ti starai chiedendo: che senso ha raccontarmi tutte queste cose invece di lasciarmi ammirare lo spettacolo del cielo?!»
Il padre aveva, tra gli altri, il potere di leggergli nella mente, di questo Adam ne era convinto.
«Beh, ha senso perché, in primis, tu non sei più un bambino, ma il mio piccolo ometto. E poi perché trovo che sia giusto fare qualcosa ben sapendo cosa si sta facendo. Avrai tutto il tempo di studiare termini, particolarità, definizioni varie e tutto quello che riguarda i telescopi e l’astronomia in generale, ma intanto, almeno la prima volta, mi piace essere io a raccontarti queste cose, foss’anche solo per vedere se mi ricordo ancora qualcosa di quello che mi raccontava ai tempi tuo nonno…».
E come spesso gli succedeva, quando tornava alla sua giovinezza, rimase sospeso con lo sguardo nel vuoto per alcuni secondi.
«Comunque… questa breve introduzione era per farti notare che tutto il telescopio funziona su una serie di specchi e lenti, come il nostro occhio. Il nostro occhio, sì anche il tuo che ti stai toccando adesso, è un telescopio, forse il più perfetto, solo che non è ‘calibrato’ per arrivare a vedere lontano fin l’universo. Per questo, per vedere meglio quei fantastici puntini luminosi che decorano i nostri cieli, qualche lontano sognatore curioso ha cominciato a pensare ai telescopi. Solo una questione di lenti e di specchi, per imparare a vedere bene la realtà che ci interessa. Tutti possiamo guardare la stessa cosa, ma nessuno la vedrà mai esattamente uguale, questo perché ciascuno di noi ha in realtà una lente diversa per guardarla. Purtroppo la lente umana è spesso influenzata da altre cose, come le nostre credenze e il nostro vissuto: i nostri pregiudizi. Imparare ad usare questo telescopio (che dal latino vuol dire guardare lontano), non potrà che giovarti anche per imparare a vivere in questo mondo con un occhio nuovo, diverso, capire che, se tu vedi le cose diverse, è solo perché hai una lente differente dagli altri.
Nessuno in realtà ha la lente buona: ognuno ha la propria. Tutti ad occhio nudo potrebbero facilmente dire che l’elefante è uno degli animali più grandi visibili sulla terra e che la pulce uno degli esseri più piccoli che possano esistere, ma cosa succede se utilizziamo un microscopio? La stessa pulce diventa grande come un elefante, e altri milioni di esseri non visibili ad occhio umano possono prendere forma solamente grazie ad una lente. Solo grazie a questa tua lente personale, potrai arrivare a vedere lontano.
La realtà che esiste per i tuoi occhi, non per quelli degli altri, è la sola realtà che conta; e se vicino a te non trovi nulla che ti piaccia, non devi far altro che continuare a cercare, guardare lontano».
«Sì papà, ma io voglio guardare le stelle ora!». Come rimarrebbe in silenzio invece adesso, ad ascoltarlo parlare suo padre! Solo dopo gli fu chiara quella voglia che il padre aveva di dirgli tutte queste cose, andando spesso fuori tema, come se sapesse che non gli sarebbe rimasto più molto tempo per farlo. E in effetti di tempo non gliene restò poi molto.
«Hai ragione, pensiamo al telescopio, lasciamo stare tutti questi discorsi! Son sicuro che hai capito cosa voglio dirti, perciò ora spazio alle stelle!».
E da quella prima sera, passarono così molte altre sere, quasi tutte, finché suo padre non cominciò ad essere veramente malato. Con gli occhi nell’universo, in silenzio, uno vicino all’altro: tutto il male, che il giorno Adam era costretto a subire sulla terra, era niente in confronto al bene che provava quando era con suo padre tra le stelle, nel loro universo costellato di felicità. Ed ancora quattro anni dopo, da solo a guardarle, era come se fosse lì con suo padre, che gli sorrideva ogni volta che staccava l’occhio dalla lente, come una stella che brillava per tutta la sua assenza. Adam ha poi continuato a guardare le sue stelle, a studiarle, ha fatto le migliori università. Non si è lasciato cambiare dagli altri, ma, al contrario, continuando a restare appassionato all’astronomia, è stato poi lui a cambiare la realtà degli altri.

Drin drin! La campanella decretava la fine della lezione, il professore aveva finito di leggere il racconto, ma aveva ancora qualcosa da dire: «La storia, che vi ho appena raccontato, è quella di Adam Riess, lo studioso americano che ha vinto tre anni fa il premio Nobel per la fisica, raccontata in una novella da un suo amico. Studiando le lontane Supernova, Adam è arrivato a dimostrare, insieme a due colleghi, che l’universo è in continua espansione e sopratutto in accelerazione. Lo stesso universo che per altri prima di lui era limitato e finito, era ora visto da tutti con un occhio, con una lente differente. So che non vedete troppo il legame con le materie scolastiche che avrei dovuto insegnarvi oggi, ma trovo sia una bella storia, e alla prossima lezione, che sarà su Galileo Galilei, l’inventore del telescopio moderno, capirete forse meglio perché.
La prossima volta parleremo bene del genio toscano, ma per il momento sappiate solo che, partendo da un punto di vista differente da quello del mondo intero dell’epoca, egli è riuscito a dimostrare che la Terra non è piatta come tutti credevano, ma sferica; e se, perfino Galileo Galilei non fosse rimasto sé stesso, se non fosse rimasto ostinatamente convinto della sua visione dell’universo, tanto da andare incontro all’emarginazione e alla prigione, ancora oggi saremmo tutti convinti che la Terra sia piatta.
Come Adam e come Galileo, quindi, vi chiedo di cercare sempre di trovare la vostra lente per vedere la realtà che vi circonda, restare con un occhio che sia vostro e non omologato agli altri: solo così potrete trovare un giorno voi stessi, nuove stelle, o giusto la felicità».

*Andrea Giramundo, Brest 2016

*Foto: trovata in internet