LA COGNIZIONE DELLA VITA – Racconto

Fino all’altro giorno ero sicuro che la mia vita non avesse più alcun senso. Convinto che la mia vita fosse un vero e proprio fallimento, non avevo stimoli per alzarmi dal letto, non trovavo motivazioni per uscire di casa, incontrare altre persone, far qualcosa: passavo tutte le mie giornate a casa, senza nemmeno riuscire a leggere più di tre pagine di un libro o a occuparmi nel far qualcosa per più di cinque minuti. L’amore non era più una parola del mio vocabolario. Ero depresso: lo sono stato per quasi un anno. Lo sono stato fino a quando ho incontrato Lui. E grazie a Lui sono tornato alla vita.

La depressione è esplosa di colpo, e senza che me ne rendessi conto sono rimasto mutilato del mio sorriso; si è caricata piano piano, in un crescendo di motivazioni che come polvere da sparo sono andate via via riempiendomi l’animo, fino a debordare da ogni lato. Tra tante cause, non saprei dire cosa in particolare abbia innescato la depressione: la perdita del lavoro e l’incapacità di trovarne uno nuovo; la fine di una storia d’amore che credevo indistruttibile; l’impossibilità di continuare a vivere nella casa che tanto amavo e che solo da un anno avevo preso in affitto; la perdita di mia madre… e tante altre piccole delusioni quotidiane che ora non saprei nemmeno elencare.
Non uscivo, bevevo, non mi lavavo più: così, da un giorno con l’altro, è sparita la voglia di vivere.

Ma questo era prima, prima di incontrare Lui. Lui ha saputo salvarmi da me stesso, mi ha ridato motivazioni per vivere, la gioia della vita: con amore, pazienza, e tanta forza. Lui mi ha salvato.
Lui e il suo dolore.

Il dolore, scriveva Oscar Wilde nel carcere di Reading, è la più sensibile tra tutte le creature. Io dirò di più: l’uomo, la più sensibile fra tutte le creature, ha davvero cognizione della vita solo nel dolore. Non parlo del dolore metafisico, del mal di vivere del poeta o della cicatrice lasciata dalla traccia di memoria di Emily Dickinson. No: il dolore, quello reale, oggettivo: quello fisico.
Certo, come per il dolore spirituale si può provare tutta una serie di compromessi per evaderlo: per il dolore fisico, mi direte, ci sono gli antidolorifici. Ma quando il dolore è grande, e ci rende impotenti, ci lascia inermi a soffrire nel nostro corpo, del nostro corpo, e non c’è antidolorifico che serva al di fuori di noi stessi.
C’è chi soffre per amore, chi soffre per un fallimento, per una mancanza o per un lutto; ma tutti, indistintamente, nel corso della vita, vivono o hanno visto vivere il dolore fisico. E se la morte è un fatto che riguarda chi resta in vita, il dolore maggiore, forse, lo vivono coloro che lo vedono agire sulle persone che amano, ancor più di chi lo patisce direttamente.

Una settimana fa, Lui, si è sottoposto a un’operazione tra le più dure che si possano subire.
Gli hanno asportato il retto, il mesoretto, e una buona parte del tessuto che circonda i vasi che irrorano il retto: operazione delicata quanto dolorosa.
Aveva un tumore al colon, e fino al giorno dell’operazione non mi ha detto niente.
Per tutto il tempo che ascoltava le mie lamentele, per il cambio di casa o per la perdita del lavoro, Lui sapeva di avere un tumore al colon e che avrebbe dovuto affrontare quell’operazione: e non me l’ha mai detto. Sembrava la persona più felice del mondo, sempre solare, sempre pronto a trovare almeno dieci buone ragioni per non pensarne una triste. E non sapeva nemmeno se l’operazione sarebbe riuscita, e quante probabilità di guarire dal cancro avrebbe avuto.

Il giorno dell’operazione, quando sono andato a prenderlo per accompagnarlo a casa sua, solo guardandolo un istante, ho capito la mia fortuna di essere vivo. Lui che non ha parenti, amici, nemmeno conoscenti, che potessero accompagnarlo in questo momento così duro e delicato, era completamente indifeso di fronte a quello che stava passando. Lui, che fino a qualche giorno prima era così forte, era ora così impotente. Tutta l’impotenza di un corpo ferito e mutilato, visibile non appena l’ho potuto raggiungere in ospedale. Scendere dal letto: un’impresa epica; vestirsi da solo, togliersi il camice ospedaliero: qualcosa di impossibile. Si sforzava di non farmi vedere quanto stesse soffrendo con quel suo bel sorriso, che tanto mi aveva aiutato fino a quel giorno, a celare la sua sofferenza; ma la sua richiesta di aiuto era lì, velata di vergogna, nei suoi occhi che non trovavano le parole. I suoi occhi volevano gridarmi a gran voce che era Lui ad avere bisogno di me.
Ora avrei capito veramente cosa fosse il dolore: ero io a dovermi occupare di Lui, di Lui e del suo dolore.

Arrivati a casa si è subito coricato a letto. E in meno di un’ora si è addormentato, esausto. Sono andato in salotto, dopo essere rimasto a guardarlo mentre dormiva per un po’ di tempo, finché non ho potuto più trattenere lacrime che avevo paura lo avrebbero svegliato. E piangere non mi doveva vedere, adesso ero io a dover essere forte.
In salotto ho potuto finalmente sfogare il mio pianto, tutto, fino in fondo. Era il pianto di un anno: tutte le lacrime che per troppo tempo avevo trattenuto.
Una volta che mi sono calmato, ho fumato una sigaretta, e ho visto tutti i miei problemi, che tanto mi sembravano senza soluzione fino al giorno prima, così lontani, e così piccoli. Ho sentito il bisogno di tornare da lui, chiedergli scusa per il dramma che avevo fatto per cose che in fin dei conti erano niente; nulla, in confronto a quello che Lui stava patendo, per tutto il tempo che mi è stato vicino, e ancora adesso che aveva subito quell’operazione e ne stava subendo le conseguenze.

Ho sentito il bisogno di esternare i mei pensieri a voce alta, e allora sono andato di là da Lui, in camera sua. Dormiva, con la faccia distesa ma ancora visibilmente provata dall’operazione. Così indifeso. Così bello. Facendo ben attenzione a non svegliarlo, mi sono steso di fianco a Lui, e accarezzandogli delicatamente la testa ho cominciato a liberare me stesso di tutto quello che m’ingarbugliava la mente, con voce bassissima affinché non mi sentisse, ma come se con Lui stessi parlando. Non so dire quanto tempo sia passato, un’ora o dieci lunghissimi minuti, e finito di sbrogliare la matassa dei miei pensieri, Lui, come avesse atteso silente per tutto quel tempo, all’improvviso si è svegliato. Preso da una scossa fortissima, ha cominciato a torcersi dal dolore, con versi che facevano male solamente a sentirli, arcuando il corpo di scatto verso il cielo, come se una mano invisibile lo stesse staccando di violenza dal letto; poi, di colpo, è crollato su se stesso: abbandonato dalla mano a giacere sul letto, estenuato. Si è voltato in maniera estremamente lenta verso di me, e mi ha guardato accorgendosi della mia presenza solo in quel momento; mi ha sorriso, come farebbe un padre in procinto di morire verso il proprio figlio, per rassicurarmi, farmi capire quanto fosse felice di avermi lì davanti ai suoi occhi. E proprio lì, dentro quegli occhi, in quel preciso istante, nel fondo dei suoi occhi, ho avuto la conferma di quanto tutto quello che fino a poco prima sembrava avere per me tutta quella tragica importanza, tutti i problemi che sembravano attanagliare senza soluzione la mia esistenza, non avevano più alcun valore, nessuna consistenza.

Solo nei suoi occhi, dietro al sorriso che tanto si sforzava di farmi, in quel sole coperto di nubi dalle quali si sforzava di uscire, ho visto tutto il suo dolore. E l’ho sentito. Ho capito, che al di là di tutti gli irrisori motivi che tanto mi davano pena fino a qualche giorno prima, ora ero vivo, felice e colpevole allo stesso tempo, nell’essere lì di fianco a Lui, vivo, e sano. Al di là del forte senso d’impotenza, del non poter fare nulla per alleviargli quel dolore, ho visto quanto anche Lui fosse vivo in quel momento, così profondamente, visceralmente vivo.

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*Copertina: Frédéric Bazille – Ritratto di Pierre-Auguste Renoir (Musée Fabre, Montpellier.)