L’altra notte non riuscivo a dormire, allora sono sceso in cortile a guardare le stelle (in realtà un po’ avevo dormito; poi non so perché mi sono risvegliato, come di soprassalto, forse per un forte rumore dalla strada; ma, aperti gli occhi, era solo il silenzio a farmi compagnia. C’è da dire che nel piccolo paese dove vivo, basta il passaggio di un cane per alterare il normale stato della strada, ovvero il silenzio più assoluto: in un villaggio di 400 abitanti, del resto, è anche immaginabile. Diciamo che più che dormire, fino a quel momento, avevo sonnecchiato, con gli occhi chiusi, tra il sogno e la realtà; forse, proprio quando stavo precipitando nel sonno più profondo, mi devo esser svegliato di soprassalto. Allora, ho pensato che fosse stata la gatta, come spesso fa, ad avermi svegliato, magari perché voleva uscire; o anche solo per farmi un dispetto, come ancora più spesso fa. Ma quella sera, la gatta, l’avevo lasciata fuori in cortile e, a meno che non abbia imparato ad aprire la grande porta-finestra da sola, non le sarebbe mai stato possibile rientrare e quindi, ancor meno, svegliarmi. A volte mi sveglio da solo, in seguito a uno scatto delle gambe più forte del solito: sono non poche le volte che, sul punto d’addormentarmi ma ancora lucido, mi rendo conto di scalciare così forte, che sembra quasi che voglia colpire qualcuno. Credo sia per la circolazione. Altre volte, invece, e questa abitudine l’ho presa da mia madre, mi capita di aprire gli occhi durante la notte, e ritrovarmi a letto con una fame improvvisa, ingestibile, dovermi quindi alzare, per mangiare quello che trovo in cucina. Ciò, però, mi capita quando salto la cena, e questo non era il caso dell’altra sera. No, non so proprio perché mi sia svegliato all’improvviso, ma una cosa è certa: una volta sveglio, non riuscivo più ad addormentarmi. Posso quindi, senza mentire, continuare tranquillamente a dire:)
L’altra notte non riuscivo a dormire, allora sono sceso in cortile a guardare le stelle (che poi, non dovrei dire cortile, non è il termine giusto. Infatti, non è un cortile quello che ho, ma una piccola corte interna. Cortile mi dà l’idea di uno spazio molto più grande di quello che in realtà è quello di casa mia. Giusto un grazioso giardino interno. Oddio, nemmeno giardino è proprio il termine migliore. Infatti è più un patio: ci sono delle piante, ma tutte in vaso e poche. Non credo che si possa chiamare giardino uno spazio dove le uniche piante che ci sono, potrebbero essere spostate, senza far loro alcun torto, all’interno della casa. Non lo so, e nemmeno mi interessa. Di certo, quello fuori dalle mie finestre, non lo è. E nemmeno, come dicevo, viste le ridotte dimensioni, il cosiddetto classico cortile. Non mi rimane che patio. Prendo allora il dizionario per verificare. Patio: Cortile interno, tipico dell’architettura spagnola e diffuso nell’architettura coloniale dei paesi dell’America latina, caratterizzato da uno spazio coperto -i porticati e i loggiati, sul quale si aprono i vari ambienti della casa, e da uno spazio scoperto, sistemato a giardino, con vasche e fontane. Mmm… No, un patio non è. Primo, perché per definizione stessa, già il patio è un cortile; secondo, perché a casa mia, vi si accede solo da una porta finestra, situata al piano terra, un unico spazio aperto salone-cucina a vista, e da nessun altra parte; Infine, nessun giardinetto appunto, nessuna fontana. Se anche per vasca potrei considerare la jacuzzi gonfiabile, no, non è un patio quello che ho. Ancora il dizionario, andiamo a vedere cortile: Porzione di area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio e destinata a dare aria e luce agli ambienti interni, al passaggio delle persone, o ad altre funzioni o anche Spazio non interamente chiuso tra i corpi di fabbrica, ma ad essi collegato mediante recinzioni o bassi fabbricati secondari. Ma cortile, deriva da corte: lat. cōrs cōrtis:cohors-tis «cortile, terreno adiacente alla villa», affine a hortus«orto». – Spazio scoperto entro il perimetro di un fabbricato, per dar luce e aria alle stanze che vi si affacciano -se di un palazzo, collegio e sim., piuttosto cortile: la finestra della cucina dà sulla corte. Beh, anche la parola ‘corte’ mi lascia parecchio insoddisfatto, ancor più di ‘cortile’, forse. E, anche se qui indica che cortile, rispetto a corte, è meglio usato per indicare lo spazio riguardante un grosso edificio, un palazzo, e di certo casa mia un palazzo non è, il fatto che a corte si associ hortus, mi porta a preferire l’iniziale cortile.
Non è facile: stiamo parlando del fuori di casa mia, dove si accede tramite una grande porta finestra, alta per i due piani che la compongono, facendone così una parete. In realtà, originariamente, era un unico edificio, un vecchio granaio, che, diviso in due, è stato così sezionato: da una parte, quella ‘chiusa’ dove vivo, che compone la casa vera e propria; e la seconda parte sezionata, a cui sono lasciate solo le pareti esteriori, ma a cui è stato tolto tutto il resto, compreso il tetto. Una conchiglia vuota. Si fa così quando si decide di trasformare una stanza in terrazza, per esempio, cosa che si fa parecchio dalle queste parti, e a tal fine si decide di aprire il tetto levandone una parte. Ecco: nel mio caso, la stessa operazione è stata fatta per l’interezza della struttura, per una delle sue due metà. Insomma, anche se avrei preferito trovare un termine migliore, in mancanza di meglio, continuerò ad usare cortile, così come ho fatto, quando ho iniziato questo racconto, dicendo:)
L’altra notte non riuscivo a dormire, allora sono sceso in cortile a guardare le stelle (non è che sia sceso subito, per andare in cortile. Non mi son scaraventato fuori appena aperti gli occhi. Anzi, son rimasto qualche minuto, tentando di riaddormentarmi; non riuscendoci, mi son alzato pensando a cosa potevo fare per conciliare la ripresa del sonno. Mi sono girato una canna, con quel poco di erba che m’ha lasciato O., sperando potesse farmi ritrovare il sonno e la serenità, che invece sembravano determinate a non voler tornare. Però, scrivere nel racconto della canna, così subito alla seconda riga, distrarrebbe troppo da quello che potrei dire dopo, o ne influenzerebbe comunque il punto di vista, e di conseguenza ne modificherebbe il senso. Quello che avrei visto in cielo subito dopo, quello che avrei trovato alzando gli occhi per vedere le stelle, non deve invece essere influenzato dalle sostanze stupefacenti. Non vorrei che risultasse falsato il carattere del protagonista, parlante negli occhi del lettore. Non voglio svelarne i vizi adesso, per non doverne dire dopo le virtù. Perciò, preferisco non scriverlo: oltretutto quest’immagine del protagonista, che guarda le stelle fumando cannabis, la trovo talmente banale da annoiarmene solo all’idea. Non si usa nemmeno più, se non in qualche serie tv da due soldi. Come il cliché dell’artista dannato, che ha bisogno della droga per fuggire, per cercare d’allietare per quanto gli sia possibile, il suo famoso mal di vivere. No, niente canna. Potrei però aggiungere che mi son girato una sigaretta, prima di scendere, così non parlerei di droghe o di personaggi cliché, ma rimarrei in un certo modo fedele alla verità. Ma anche qui, troppi motivi per non farlo. Perché: se ho detto che non voglio dare del protagonista un’immagine che ne alteri lo sguardo, agli occhi del lettore, non vedo allora, ancora di meno vedo, perché dovrei accendergli, proprio io, una sigaretta in bocca. Sigaretta, che risulta narrativamente scontata, almeno cento volte più della canna, vista rivista e stravista, ancora oggi, sin dai tempi dei primi film in bianco e nero. E poi, le canne sì, come le sigarette hanno il filtro, è vero, ma sempre fatto con un cartone se non con del tabacco, mentre quello della sigaretta, che sia bio o meno, inquina, e parecchio. Una delle cose che mi fa più arrabbiare, al riguardo, nel guardare un film o una serie tv, è vedere ancora, ancora nel 2020, un personaggio, magari il protagonista, il duro che sta salvando il mondo, che, finita la sigaretta, la tira deciso lontano, per terra. Nel 2020! E’ evidente: se al figo del film faccio buttare in terra la sigaretta, invece di fargliela buttare in un cestino, se non addirittura di farlo fermare un momento e, prima di lanciarsi alla difesa del pianeta, fargli tirar fuori il suo bel portacenerino portatile per buttare via la cicca, non posso poi aspettarmi che il ragazzino-medio-spettatore non faccia altrettanto. Ma si può ancora rappresentare il duro del film, come qualcuno che finita la sigaretta la getti deciso con una schicchera lontano?! Come si può aspettarsi un’educazione ambientale dai nostri giovani, che già partono con la cultura che hanno, se non vedono altro che esempi sbagliati? Che poi: almeno, la canna ti rilassa, può avere perfino qualche proprietà benefica seppure non si possa dire che faccia bene; ma la sigaretta fa male e basta! Quindi no, niente sigaretta: per ragioni ambientali, oltre che per fuggire ai soliti cliché, che come avete capito mi fanno tanto orrore. Ed è infatti così, senza fumare né una canna né una sigaretta, che:)
L’altra notte non riuscivo a dormire, allora sono sceso in cortile a guardare le stelle (anche se, a ben rileggere la frase, mi verrebbe da cambiare un termine, perché: ‘l’altra notte’, in realtà, era ieri notte. Ma ‘ieri notte’ è sempre stata una di quelle parole, per me, come dire?, nebbiose. Ieri notte.
‘Ieri notte’, secondo me, non vuol dire granché. La notte sorpassa la mezzanotte, fino all’alba del giorno dopo. Ma il nuovo giorno inizia a mezzanotte: come si fa a capire in modo preciso allora di quando si sta parlando: che giorno è ‘ieri notte’? Ieri o l’altro ieri, se dico ‘ieri notte’. Il giorno non inizia con la mattina, ma con la notte precedente; all’una di notte c’è la luna in cielo, non il sole: la stessa notte di lunedì, non la sera, la notte, la stessa notte di lunedì, è, in effetti, anche la stessa notte di martedì, no? Almeno una delle due, perché se un giorno ha una mattina, ha però due notti.
Forse bisognerebbe dire, se proprio si volesse usare ‘ieri notte’, specificare bene quale notte: dire quindi ‘ieri notte notte’ o ‘ieri notte mattino’, così da capire, senza lasciare dubbi, di che giorno si stia parlando. Del resto, anche usare ‘questa notte’, sarebbe in fondo la stessa cosa – anche se forse non la stessa notte. Bisognerebbe dire, meglio allora, precisare meglio, dicendo: ‘questa notte oggi’ o ‘questa notte ieri’, per esempio. E allora, a questo punto, mi sembra più preciso mettere, o meglio, lasciare, come ho scritto dall’inizio, senza cambiare alcun termine:)
L’altra notte non riuscivo a dormire, allora sono sceso in cortile a guardare le stelle (va detto, a questo punto, che è stata la forza dell’abitudine a farmi scrivere così: ‘sono sceso in cortile’, perché in realtà non sono sceso da nessuna parte. Nel senso che, anche se è vero che la mia stanza da letto sta al primo piano e al cortile si può accedere solo dal piano terra; l’altra sera non mi ero addormentato a letto, ma sul divano, che è appunto al piano terra. Spesso infatti, specialmente in estate ma anche in primavera e persino in autunno, mi capita di addormentarmi sul divano, e di risvegliarmi poi durante la notte, poi trasportarmi come uno zombie in camera, a dormire tra le lenzuola. Non so perché. Sarà la grande finestra, che non vedo dalla camera da letto, e che invece dal divano mi fa quasi sembrare di dormire all’aria aperta; o forse il fatto che quando sono da solo, come del resto la più parte del tempo, è difficile che trovi la voglia di mettermi a letto e dire: dormo. Non so perché, ma è così. L’inverno no, fa troppo freddo per dormire di sotto. Ma oggi, giorno in cui sto scrivendo, quindi il giorno dopo la notte di cui sto raccontando, è il 12 giugno 1975, che non è certo inverno. Volendo volendo, potrei scrivere, al posto di: ‘sono sceso’, ‘sono uscito’ in cortile. Ma non sembrerebbe così, che sia uscito da casa mia, chessò in strada, e che sia così visibile da occhi e spazi esterni? Sì. Ma non è così. Non è così perché vi ho già spiegato come sia fatto il mio cortile, che appunto è mio perché solo io vi ho accesso. Ma oltretutto, forse non ho ben spiegato, una delle caratteristiche del mio cortile, che tanto me lo fa amare: sono le alte mura che lo circondano tutto. Infatti, vi ho detto, ricordate, che il cortile è originariamente lo spazio interno di una casa, speculare alla mia, privato del tetto e con le sole 4 pareti esteriori, di cui una è composta dalla grande vetrata dell’appartamento; bene, le altre mura sono le originali pareti della casa di due piani, e così alte sono rimaste. Non avendo intorno nessun altro edificio più alto, nessun può vedere dentro il mio cortile, a meno che si trovi a casa mia.. Proprio per questa ragione, su tutte, amo tanto il mio cortile: perché l’estate, o quando comunque c’è una temperatura che me lo permetta, sono come Adamo in Paradiso, non ho nemmeno bisogno della foglia per coprirmi, io!
Oltretutto, essendo un vecchio granaio le cui mura sono in pietra, in estate, il piano terra è molto più vivibile in quanto più fresco, mentre la camera da letto, con le alte temperature, è un forno; e per la stessa ragione l’inverno invece, preferisco dormire nel letto, in quanto la stanza rimane più calda rispetto al resto della casa: sono i pro e i contro del vivere in una vecchia casa di paese fatta di pietra, che ci volete fare? L’altro giorno quindi, per queste ragioni, mi son risvegliato che ero sul divano e non a letto, e per uscire non ho dovuto scendere nessuna scala, non ho dovuto far altro che uscire dalla porta-finestra. Non è solo per la forza dell’abitudine però che ho scritto così: trovo che la frase intera suoni decisamente meglio con ‘sono sceso’. Anche adesso che le rileggo più volte a voce alta, entrambe le frasi, con la variazione di uscire oppure di scendere. Proviamo: L’altra notte non riuscivo a dormire, allora sono uscito in cortile a guardare le stelle, oppure, L’altra notte non riuscivo a dormire, allora sono sceso in cortile a guardare le stelle. Decisamente meglio la seconda versione, almeno per il mio orecchio. Oltre a ciò, lo scendere, secondo me, implica un alzare la testa, un abbassarsi ulteriormente rispetto al proprio abituale punto di vista, per meglio abbracciare con lo sguardo gli astri e le costellazioni. Perché, se è vero che bisogna sempre alzare la testa per poter scorgere le stelle, per un uomo, indipendentemente dal punto sulla terra dove si trovi, dicendo ‘sono uscito’, si potrebbe alludere anche ad un balcone del centoventicinquesimo piano di un grattacielo a Bangkok; non per forza da terra-terra. Dire: sono sceso in cortile, al contrario, a meno di arzigogolate immagini, che comunque non sarebbero le prime a venire in mente al lettore, obbliga a dedurre che la persona che sta andando a guardare le stelle, lo faccia dal suolo terrestre, perché no? sdraiato con la schiena per terra. Mi rendo conto però, ad un certo punto, che devo pur chiudere questa parentesi infinita che da troppo tempo ho aperto, decidermi sulla prima frase, ed andare avanti una buona volta con il racconto fino alla fine. Quindi lascio:)
L’altra notte non riuscivo a dormire, allora sono sceso in cortile a guardare le stelle; ma, una volta sceso, di stelle non ce n’erano più.
*Mailhac 04 2020