Nel libro “Le cose fondamentali”, Tiziano Scarpa raccoglie in un diario i momenti del suo vivere l’esperienza di padre, dedicandolo al suo neonato figlio. Affinché quest’ultimo lo legga allo scoccare dei suoi quattordici anni. Cosa egli provi durante questi primi giorni e prime esperienze, lui papà, il sentire come la piccola creatura riceva il mondo, immedesimandosi con lui, provandoci fino ad uscire con il pannolone nascosto nelle mutande per provare come da neonati ci si possa perfino dimenticare dei bisogni primari -se dimenticare si può dire-, come fa ogni bambino che si faccia i propri bisogni addosso; vivendo per lui, e facendo di lui il suo nuovo mondo. Vuole provare a scrivere, prova a spiegare il suo intento, a sé stesso prima ancora che a chiunque altro, parlando del diario in essere: un ricettario di cose fondamentali della vita, che immagina saranno le domande del figlio quattordicenne, fondamentali in piena esplosione adolescenziale in aperto odio contro tutto ciò che rappresenta l’autorità, il padre su tutti. Cosa che il padre si augura, perché solo così: in questo contrasto col figlio quattordicenne dopo averci vissuto fino a quel momento in aperta simbiosi come con una neonata parte del suo corpo: solo così, avrà la certezza che suo figlio stia riuscendo in quel preciso momento a diventare un uomo.
«Che cos’è l’amore, che cos’è il potere. Che cosa sono i soldi, la malattia, la morte. Gli adulti mi tenevano nascosta la verità sulle cose importanti. Mi sono messo a scriverti per non rifare lo stesso sbaglio. E anche perché non credo che riuscirei a dirti queste cose a voce, faccia a faccia».
E ancora: “A un certo punto mi odierai. Sto cominciando ad abituarmi all’idea. Mi alleno. Sei appena nato: quindi, se non sono troppo ottimista ( e se non muoio prima), mi aspettano quattordici anni di bene da parte tua. Ne farò una scorpacciata, del tuo bene, per riuscire a reggere l’urto quando ti darà fastidio anche solo vedermi. Ho quattordici anni di tempo per cercare di non farmi odiare troppo quando diventerai adolescente.
(Per non irritarti, la prima cosa da fare è non scrivere mai più bambino mio. Se c’è una cosa che ti darà fastidio, quando avrai compiuto quattordici anni, sarà essere considerato ancora un bambino, o che ci sia qualcuno che ti ricordi che lo sei stato).
(Forse io sto sbagliando tutto, a descriverti come un neonato inerme nelle nostre mani. Forse la prima cosa che un ragazzo di quattordici anni desidera è che non gli si ricordi continuamente di essere stato un bambino. Lo è stato fino a poco tempo prima, non ne può più, non vuole più saperne, giustamente. Sta diventando forte, comincia a fare da solo).
(Sarebbe come voler rimettere addosso a una farfalla la crisalide vuota, una carcassa appena lasciata da parte, ancora umida. Io sono quella carcassa, io sono quella broda vischiosa che vorrebbe rimanerti appiccicata. Devo essere forte, devo imparare a essere felice del tuo decollo).”
È talmente in simbiosi col neonato figlio da uscire anche con la carrozzina vuota quando il bambino soffre di una fastidiosa influenza che lo costringe in casa, così da sentirsi in simbiosi anche quando senza. E pensando a questo suo scrivere al figlio come a un monologo che il figlio leggerà solo a quattordici anni, vede una similitudine: questo suo dialogo muto col figlio è come portare in giro una carrozzina vuota.
Trovo perfetto questo parallelo tra le due azioni. Dello scrivere, una giustissima definizione. Che, se non solo in un dichiarato intento a questo scopo come Scarpa che scrive per suo figlio, non è forse vero che qualsiasi scrittore scrive ogni volta per qualcuno che verrà dopo di lui? Per un figlio della sua generazione, un figlio del futuro.
Lo scrittore, che sia egli padre o che sia lo scritto a rappresentare quel figlio di cui lascerà l’eredità al mondo, nell’atto stesso di scrivere, dedica le sue parole al futuro: scrivendo, sta compiendo un atto d’amore, per donarlo ai figli dell’uomo.
Scrivere è portare in giro una carrozzina vuota.
A.