Il grande specchio dalla cornice nera sopra il letto ne rendeva sempre un’immagine così imperfetta, piccola, in inferiorità di fronte all’immagine di lui, in piedi dietro di lei, entrambi riflessi sopra i cuscini.
Fin dalla loro prima volta, quello specchio la faceva sentire orribilmente nuda, quando ci si guardava dentro, spogliata d’ogni pudore sul letto d’Andrea.
Diversi i motivi per i quali Elsa si sentisse così, almeno quelli che aveva nel tempo trovato come risposta a questa sua sensazione, che ogni volta la faceva sentire come un essere inferiore al cospetto di un Dio: Andrea aveva quarant’anni, lei solo venti; Andrea era il suo professore di Italiano; Andrea era un poeta e molto molto affascinante: una mente splendida che muove un corpo perfetto…
Si erano conosciuti al Gazette café, il bar dove lei andava a studiare con le sue amiche nei ritagli di tempo tra le lezioni all’Università.
Andrea, che all’epoca era solo un affascinante sconosciuto seduto al tavolo di fronte al suo, l’attirò terribilmente sin da subito. D’abitudine con le compagne di corso studiava seriamente e con la testa quasi fissa sul tavolo, ma quel giorno non riusciva a smettere di spiare cosa quel ragazzo stesse facendo. Domandò alla sua amica cosa secondo lei quel bel tipo facesse lì, così serio e impegnato in quel che faceva, ma Estelle le rispose che non ne aveva idea e che nemmeno se lo domandava visto che quel ‘ragazzo’ aveva almeno 15 anni più di lei, e che sicuramente stava facendo qualche cosa di molto molto noioso. Ma quel ‘qualche cosa’ non bastò ad Elsa, voleva saperne di più. Lui scriveva tutto il tempo al suo pc senza quasi mai alzare la testa, quando invece la più parte dei ragazzi, che andavano in quel bar, ci andavano per avere una scusa “professionale” per rimorchiare le ragazze. Non alzava mai gli occhi verso nessuno, niente sembrava poterlo distrarre dal suo lavoro. Lei doveva in tutti i modi sapere cosa lui facesse nella vita, senza capire nemmeno lei, oltre alle sue amiche, la ragione di tutta quella curiosità che dal primo istante aveva avuto per quello sconosciuto.
Ogni volta che lei andava al Gazette café, lui era lì, sempre da solo. Lei sempre con le sue amiche. Finché un giorno, qualche settimana dopo la prima volta che l’attenzione di Elsa fu attirata da lui, per forza di cose dovettero dividere un tavolo per lavorare, gli altri erano tutti riservati.
Così erano arrivati a parlarsi per la prima volta. Col tempo arrivò a scoprire sempre più informazioni su quell’uomo misterioso: era professore d’Italiano presso la sua stessa Università; quando lei lo vedeva al bar, lavorava a delle traduzioni e al progetto di un libro che contava di pubblicare entro la fine dell’anno: una raccolta di poesie e novelle; parlava 5 lingue; aveva due occhi verdi stupendi e una voce che ti incantava; non parlava mai di una compagna fidanzata, o moglie che fosse, e Elsa si rese conto che nel suo inconscio sperava che non ne avesse proprio.
Anche se, di tempo in tempo, nelle giornate successive a quel loro primo incontro, scambiarono qualche parola durante la pausa-sigaretta, lui non sembrava per niente attirato da Elsa, che forse era per lui solo una ragazzina: sembrava piuttosto risponderle per gentilezza.
La cosa che la confondeva era che lui, pur dando di sé questa sensazione di distacco, quando la guardava dritto negli occhi, sembrava dire tutt’altro: lei immaginava scene di sesso tra loro, anche se lui le stava parlando di qualche novità inerente la “loro” Università e quando poi lui la lasciava, per andare a riprendere il suo lavoro, lei si ritrovava sola e spesso umida tra le mutandine.
Non è che avesse a 20 anni una grande esperienza sessuale, ma non era nemmeno vergine: quell’effetto su Elsa non lo aveva mai avuto nessun ragazzo.
Nonostante la differenza d’età, Elsa sentiva che doveva uscirci insieme, almeno una volta, fosse anche solo per capire la ragione di quell’attrazione sessuale che sin dal primo istante lei aveva provato per lui.
Solo che non sapeva proprio come fare: aveva paura che, se gli avesse chiesto una volta di andare a bere un bicchiere da qualche altra parte, lui, non solo le avrebbe risposto no e smesso di parlarle, ma, ancor peggio, l’avrebbe presa per pazza, visto che, agli occhi di lui, lei non era altro che una bambina.
Alla fine si inventò un’imminente partenza per fare un Erasmus in Italia, per il quale lei aveva bisogno di ripassare l’italiano, che aveva studiato al liceo ma che aveva abbandonato da quel tempo, e che avrebbe voluto ripassare un po’ con un professore privato. Gli chiese quindi se fosse stato possibile per lui darle qualche lezione. Andrea accettò. Le diede appuntamento a casa sua per la settimana successiva: in genere, le disse, non dava mai appuntamento per la prima lezione a casa propria (luogo che riteneva il migliore per poter far lezione in pace), specie se ad una ragazza e molto più giovane di lui, ma, visto che loro da qualche tempo si conoscevano e si parlavano durante le pause, aveva pensato di poterla invitare da lui per la lezione, senza che lei pensasse che ci fosse qualche altra intenzione dietro la scelta del luogo.
Elsa, pur continuando a risentire nelle orecchie ‘una ragazza molto più giovane di me’, che lui le aveva detto nel darle l’appuntamento, come la conferma alle sue paure riguardo la forte differenza di età, ovviamente, accettò con un gran sorriso. Lei, che era la più energica delle sue amiche, la più ciarliera e la più solare, quando si trovava di fronte a lui, non riusciva quasi più a parlare, e spesso si ritrovava a sorridere incantata come una cretina ad ogni frase del suo nuovo professore d’italiano: – A martedì prossimo allora! Alle 15. E così, sin da quella prima lezione, si era subito ritrovata ad aspettare tutta la settimana per poter passare quell’ora insieme ad Andrea, e di certo non perché avesse scoperto un’improvvisa passione per l’italiano, sempre che per italiano non s’intenda il professore stesso…
All’inizio più che di grammatica, di accenti e d’intonazioni, non parlavano mai. Finché un giorno Andrea, che aveva la casa piena di libri, gliene diede uno in italiano che lei avrebbe potuto facilmente trovare in lingua originale, in francese, e che avrebbe potuto leggere durante la settimana per esercitare la lingua. Il libro era “La filosofia del boudoir” del Marchese de Sade. Elsa, pur non conoscendo minimamente il libro o l’autore e non amando nemmeno troppo leggere, accettò senza remore di fare qualche compito a casa: avrebbe così avuto qualcosa di lui sempre con lei, anche fuori dalle lezioni.
Come suggeritole da Andrea, andò subito a comprarsi la versione originale del libro, visto che nella versione in italiano non capiva quasi nulla.
Fu così che, parimenti alla sua attrazione per Andrea, si ritrovò assorbita da quel libro non appena cominciò a leggerne le prime pagine. Il libro era un vero e proprio manuale sulla perversione della ragione: attraverso dei dialoghi, un libertino e la sua compagna insegnavano ad un’innocente fanciulla la loro morale del Bene e sopratutto del Male, applicando i loro discorsi e la loro filosofia di vita ai piaceri del corpo, iniziandola così a pratiche sessuali spesso estreme e scandalose.
Impossibile, la notte quando si addormentava leggendo il libro, non sognare poi situazioni analoghe con il suo professore d’italiano, nel ruolo d’istruttore dei piaceri del corpo: ogni mattina si svegliava sempre più eccitata.
Un giorno prese il coraggio a due mani e decise di parlargliene, aveva certo paura delle possibili reazioni, ma così non poteva proprio più andare avanti.
Da quel giorno ne passarono altri: i due lasciarono stare l’Italiano e cominciarono ad incontrarsi solo per fare sesso.
Andrea dominava Elsa, mentalmente e corporalmente, come avveniva alla giovane fanciulla nel libro che le aveva regalato.
Ogni volta che si guardava nel grande specchio dietro la testata del letto del suo professore, lei se ne rendeva sempre più conto.
Col tempo anche Andrea sembrò affezionarsi ad Elsa, e gli appuntamenti alla settimana diventarono più d’uno: passavano il tempo a letto, giocando coi loro corpi, facendosi carezze, facendo sesso come indemoniati, mangiando e bevendo, parlando di filosofia e di tutto quello che lui aveva da insegnarle. Fuori da quella stanza i due non si incontravano mai: Andrea aveva smesso anche di andare al Gazette café.
Lei non riusciva mai a parlargli della propria voglia di capire quel rapporto, della speranza in una relazione un pò più “normale”, della curiosità che aveva di sapere cosa lui facesse quando non si vedevano; ma in fondo a lei non importava. Era lui a decidere quando vedersi e per quanto tempo, e a Elsa andava bene così.
Con il tempo si instaurò come un tacito accordo tra i due, il loro rapporto si basava su quel genere d’incontri: lui era il padrone del corpo e della mente di lei; lui le parlava di scrittori e di poesia, di grandi idee e d’ideali, e di pratiche sessuali: lei in tutto ciò lo sentiva sempre parlare d’amore.
A letto, nudi, passavano ore. Lei adorava quei momenti dove perdeva ogni pudore, ogni ansia e ogni freno inibitorio, dove si lasciava fare tutto ciò che lui avesse desiderio di farle. Amava sentirsi la sua allieva, la sua schiava, e lasciarsi possedere e dominare così, come se lui ne fosse il padrone.
Il confine continuava ad andare sempre un po’ più in là: con il tempo lui le impose dei travestimenti, cominciò a filmare quegli incontri, a legarla, fino arrivare a farla camminare per la stanza a quattro zampe vestita da donna-gatta e farle bere del latte dentro una ciotola.
Lei che aveva avuto solo un paio di ragazzi fino a quel giorno, e che mai aveva concesso loro un rapporto anale né tantomeno orale, si ritrovò così a fare cose che mai prima aveva neppure immaginato, e tutto ciò con uno sconosciuto ben più adulto di lei, incontrato in un bar e di cui fondamentalmente non sapeva quasi niente.
Non la sembrava scandalizzare più niente e anche se per alcune cose che lui le chiese di lasciarsi fare, all’inizio ebbe un pò di timore e remore, si ritrovava sempre automaticamente ad accettare tutti i comandi del suo precettore. Senza nemmeno sapere come e perché, si ritrovò in una girandola di perversione e pericolo che la spaventava quanto la eccitava.
Durante i loro incontri, non erano due squallidi pervertiti o due attori porno di un film scadente, per lei, erano Adamo ed Eva ubriachi tra le vigne del Paradiso, che davano sfogo ai loro desideri e al loro piacere.
Lei, che sin da piccola non aveva mai avuto un papà, si ritrovava così con un padre-padrone che la dominava completamente e al quale obbediva ciecamente.
Andrea aveva dall’inizio, però, posto delle regole: lui sarebbe stato sempre e comunque il suo professore, non era intenzionato ad una relazione di tipo canonico, le aveva quindi imposto di dargli sempre del Lei, di considerarlo sempre come il suo maestro e mai come un amico o ancor meno come un fidanzato: quello che loro facevano non aveva niente a che vedere con un’amicizia, o un fidanzamento, era tutt’altro: erano loro due. Solo per l’importanza, l’unicità che questo loro tipo di rapporto sembrava avere, lei, come sempre, accettò queste regole senza problemi.
Gli incontri mantennero anche per questo sempre un prezzo, un compenso che lei avrebbe dovuto comunque riconoscergli, in qualità di suo professore appunto. Ciò, Andrea le spiegò, serviva per mantenere le distanze da qualsiasi altro tipo di rapporto lei avesse mai conosciuto prima, in più gli permetteva sempre di mantenere il ruolo di ‘maestro’ nei loro incontri: non si va certo a pagare un dottore per poi dirgli come operare sul nostro corpo.
Ovviamente le aveva anche fatto promettere di non far mai parola con nessuno dei loro incontri, di cosa facessero e di cosa si dicessero: con tutti il più assoluto silenzio. Non per paura del giudizio della gente, del quale le aveva detto una volta di non essersi mai troppo curato (oltre tutto lei seppur giovane era comunque maggiorenne e consenziente), era più che altro per mantenerne il lato segreto, aspetto fondamentale per il tipo di rapporto a cui lui aspirava.
Quando non era il giorno del loro appuntamento, ogni volta, lei passava la notte a cercar d’immaginare cosa avrebbero fatto la volta successiva, le possibili scene diverse, prima di arrivare da lui; ma ogni volta era poi tutto nuovo ed immaginabile. Mai, ad esempio, avrebbe potuto prevedere di trovarsi un giorno legata al letto, con lui che le faceva colare della cera calda da una candela direttamente sul corpo e sul sesso. Mai avrebbe immaginato di farsi soffocare con un tessuto nel momento dell’orgasmo. Mai, ora, avrebbe potuto immaginare la sua vita senza Andrea; mai avrebbe potuto immaginarsi a fare quelle cose con qualcun altro; mai avrebbe potuto pensare di smettere un giorno quelle pratiche: oramai ne era dipendente.
E anche se ultimamente gli eccessi di quei rapporti cominciavano via via a prendere una piega sempre più violenta, quasi sado-masocistica, lei non si preoccupava d’altro che di soddisfare la passione del suo amore e padrone: era la passione dell’animale sano, il corpo, con la mente che si perde nel desiderio, e del piacere che ne nasce dalla soddisfazione di entrambe le parti.
Le candele ondeggiavano nella stanza buia, dando potere allo specchio di renderli protagonisti di un sogno.
«Per sempre le sarò riconoscente, ancor più, grata, per avermi fatto capire che il godimento fisico, che ho veramente conosciuto solo grazie a Lei, è fuggevole, cosa effimera alla quale non bisogna cercare troppo un senso, o per lo meno non necessita di grandi scuse per essere ricercato e provato, ma semplicemente va vissuto, come la vita, per quello che è. Ed è grazie a questo gioire del corpo che ci si sente vivi. Con Lei ho imparato a conoscermi meglio, ho imparato a non farmi rovinare dal cervello questa vitalità del mio corpo d’adolescente, che va vissuta e prima ancora ricercata e sviluppata, senza se e senza ma. Basta solo trovare un buon maestro per capirlo… e io ho trovato Lei. Ed ora non potrei mai farne a meno! Vedermi con un mio coetaneo, con i suoi problemi d’adolescente che vuol sembrare già uomo, con la sua mancanza d’esperienza aggravata dalla presunzione di averne, solo perché passa un’ora al giorno su qualche canale porno d’internet, mi è impossibile. Se prima non riuscivo ad avere rapporti sessuali di questo tipo, diciamo del tipo che non prevede l’amore come causa scatenante, spesso a causa delle mie ansie e paure, ora non ci riuscirei mai, invece, se privata del mio professore: alla fine, ho solo sostituito la dipendenza dal mio cervello con la dipendenza verso quello di qualcun altro. Ora sono dipendente da Lei.
Solo a vederli, i miei coetanei, con gli ormoni al posto dei neuroni, tutti così uguali, omologati, assolutamente disinteressanti, con le loro pulsioni sessuali così infantili, quegli atteggiamenti e sguardi copiati da qualche serie televisiva, senza niente in realtà da poter scorgere in fondo ai loro occhi, la loro goffaggine e banalità… beh, solo a vederli, oramai arrivo a sentirmi come frigida. Quando al contrario Lei, Professore, riesce a farmi eccitare solamente leggendomi due versi di una poesia, o perfino con due semplici parole dette al telefono per darmi l’appuntamento, soltanto col timbro della sua voce…»
Dietro di lei, con un coltello in mano, lui la guardava con un sorriso malizioso: «Non hai fame? Non ho preparato niente oggi, ho solo questo bel salume italiano, si chiama culatello, a mio avviso il salume più buono del mondo. Tipico della provincia di Parma, ha una lavorazione molto complessa ed artigianale, che può avvenire solo tra ottobre e febbraio. La parte di carne è ricavata da suini adulti, allevati solamente secondo metodi tradizionali, e viene poi separata e rifilata a mano, così da darle questa bella forma “a pera”».
Per tutto lui era il suo professore: per ogni cosa Andrea le raccontava una storia, le spiegava qualcosa che lei non conosceva, rendendo interessante come non mai anche il mangiare due semplici fette di salame. In realtà, Elsa lo guardava senza mai troppo seguire quello che le diceva, ma con l’orecchio comunque pronto a coglierne i comandi, che ubbidiente non avrebbe tardato ad eseguire. Ritornò alla realtà quando parlando della forma del salume, una mano di lui, quella che non teneva il coltello, le accarezzò il seno sfiorandone i contorni, delicato, ma con lo sguardo avido, come fosse un affamato nel deserto che osserva palpeggiando il frutto più succolento del mondo, pregustandone il sapore in bocca e sapendo che sarà l’unico, l’ultimo che mangerà prima di morire.
Andrea continuava a parlarle mentre affettava quel profumo che inondava le narici di gusto, quel culatello aveva veramente l’aria di essere qualcosa di unico: «Una volta fatte queste operazioni, è necessaria una stagionatura di 10 mesi, in poche parole lo si prepara un anno, per mangiarlo l’inverno dopo. Non se ne producono più di 50000 pezzi l’anno. Trovo questa cosa super eccitante!»
Messo in bocca, il culatello apriva spazi tra le guance che Elsa non sapeva nemmeno d’avere fino a quel momento. Ogni volta, per ogni cosa, anche la più piccola, sopratutto anzi per la più semplice che si potesse pensare, era per lei “una prima volta”, qualcosa di unico, indimenticabile ed insostituibile.
E ogni volta così: le recitava delle poesie, le leggeva degli estratti di qualche raro libro; i loro sfoghi di passione e i giochi sul letto, gli orgasmi del corpo; il mangiare e il bere, il bagno o la doccia; e il tempo correva veloce verso la fine dell’Incontro.
«L’ora si è fatta. Se vuoi andare a farti una doccia, ti chiamo un taxi, che ho un incontro tra meno di un’ora». Le disse Andrea, con il telefono già in mano: come ogni volta che le diceva qualcosa, pur se in forma di domanda cortese, era in realtà un’affermazione finita, se non un comando.
«L’anno scolastico sta volgendo al termine, è ora che finiscano anche i nostri incontri. Quello di oggi è stato il nostro ultimo, mi son reso conto che ti stai affezionando troppo a me, e ciò non è possibile. Quello che avevo da insegnarti ho avuto modo di mostrartelo. È stato tutto molto bello, ed è per questo che ho deciso così. Una relazione tra noi, tu sai meglio di me, è impossibile. Te lo avevo detto sin dall’inizio… Sì, buongiorno, vorrei un taxi in via Jean-Paul Sartre 81, tra 15 minuti per favore».
Lei, ascoltato quello che il professore aveva da dirle, senza voler mostrare alcuna reazione alle sue parole, rimase per alcuni secondi in silenzio. Dopo di che, abbozzando un sorriso, con l’intenzione evidente di voler dire qualcosa di per niente divertente, disse solo: «Come vede non ho nessun commento da fare a quello che mi ha appena detto, ho solo bisogno di andare in bagno, se non le dispiace». Rimase in silenzio ancora qualche secondo, sempre guardandolo, inutilmente, perché lui guardava fuori dalla finestra, e sembrava non aver più niente da aggiungere a quello che le aveva appena finito di dire. Dopo il silenzio in cui si era chiusa, andò a farsi la doccia. Rientrò dal bagno agitata e nevrotica: senza scorgerla ancora, la si poteva già sentire arrivare: ancor prima di varcar la porta della stanza, aveva cominciato a mezza voce a parlare da sola: dal letto se ne sentiva, sommesso e confuso, solo giungere il brusio, il borbottio, il parlottio, ma non si poteva distinguerne parola intera alcuna. Si andò a sedere sul letto, aveva fatto la doccia ma senza bagnarsi i capelli; già vestita, profumava ancora di fiori tropicali da shampoo delicato.
In quel momento aveva un’incredibile paura, delle parole che lui avrebbe potuto usare, osare dirle, cercava di continuare a parlare, senza neanche prendere il tempo per respirare, così da non far parlare lui, che avrebbe continuato a ferirla a morte, con l’arma più pericolosa che il professore possedeva: la parola.
«…Dopo il nostro primo incontro, dove ero sopraffatta dalla paura e dalle emozioni, qui… – con un colpo di tosse, abbassando gli occhi –, ogni incontro lo sento adesso come un sortilegio inscindibile del quale poco a poco son diventata dipendente, settimana dopo settimana, incontro dopo incontro, orgasmo dopo orgasmo, e dopo orgasmo ancora… Adesso mi saluti così, e pretendi sia per sempre?!» Per la prima volta gli diede del tu, ma lui non sembrò nemmeno accorgersene.
Di colpo, mentre parlava ebbe come un dolore al cuore, qualcosa la pressò forte in mezzo al seno, la gola serrata, occlusa: il dispiacere della carne, i conati di vomito, l’umiliazione di non riuscire a nascondere la nausea che improvvisa l’aveva presa, come se il suo stomaco volesse rigettare le parole che non lei voleva assolutamente digerire. Gli occhi di colpo le si fecero gonfi e violacei, prima di farle vomitare qualche pesante lacrima e di anestetizzarle la lingua d’un amaro rancore.
Come corvi rapaci ed avidi in stormo sopra un pezzo di carne sanguinante, nella testa le si affollavano mille dolorosi pensieri, in un baccano da mal di testa infernale; ma dalla bocca non riusciva ora ad emettere nemmeno più il ben che minimo cinguettio.
La studentessa aveva scoperto, grazie a quelle loro “lezioni”, in fondo all’umiliazione e allo spavento iniziali, la più soave delle passioni. Semplicemente, dietro questo loro rapporto, così lontano dalla norma, aveva scoperto il sentimento, la dipendenza per il suo professore, aveva scoperto l’Amore. Nella sua infanzia, magari, sarebbero state le carezze di suo padre, mai conosciuto, che l’avrebbero iniziata al piacere nei confronti di un uomo più adulto. E forse proprio questa mancanza di una figura paterna nella sua infanzia, per avvicinarla ai primi rapporti con un uomo più adulto, l’aveva probabilmente preparata ad accogliere adesso questo sentimento. Amore innominabile che mai avrebbe potuto avverarsi se non trasgredendo le leggi della morale. Leggi che, appunto, non contemplano mai l’Amore. Amore derivante dal mondo del sesso, mondo dove, in fin dei conti, il piacere personale non risponde mai a regole generali e universali per tutti uguali.
E, essendo nel suo caso, un sentimento profondamente illecito, non sarebbe mai stato realizzabile diversamente che in circostanze illecite; passione di cui la natura, per certi versi, appartenente al vietato o al celato, non poteva manifestarsi che in un animo profondamente già turbato, la cui turbe altrimenti sarebbe rimasta però coperta da una coltre d’apparenze, che avevano come unico scopo l’omologazione della sua persona ai rapporti della società, fosse anche solo per paura dei giudizi o di una possibile esclusione o emarginazione.
Elsa era ben cosciente, sin da subito, dell’impossibilità di questo amore. Ma si sa, che coscienza e amore non hanno mai fatto rima, anzi… Di conseguenza, lei stessa, passando oltre le virtù che ci si aspettano normalmente da una brava ragazza, aveva oscuramente desiderato di arrivare un giorno a questo tipo di relazione, la cui entità non avrebbe mai indietreggiato davanti a nessuna turpitudine.
Visto sotto un certo angolo, questo amore, l’insieme dei loro incontri, aveva superato l’oscenità iniziale per prendere la dimensione di una cerimonia sacra. Elsa certamente percepiva in quel momento, a difetto della brutalità dell’abbandono che stava subendo, ciò che si nasconde nella sessualità umana e nel mistero dell’amore: l’inviolabile sacralità del mistero e la subordinazione alla persona amata.
Di quelle parole, di quel «È ora che finiscano anche i nostri incontri», stava valutando se Andrea era veramente determinato nella sua decisione o meno. Se diceva il vero, lei non avrebbe mai potuto sopportarlo, ma nemmeno far niente perché lui cambiasse idea: per quel poco che lo aveva conosciuto nel tempo, di questo ne era certa.
Andrea parlava poco, ma non parlava mai a caso, e quando diceva una cosa, anche che non lo riguardava per primo, poi si avverava costantemente. Se poi si trattava di qualcosa che lo riguardava personalmente, era sicuramente il frutto di una lunga riflessione, presa di posizione e quindi decisione, che mai avrebbe ritrattato in un secondo tempo.
Il fatto infine di averle parlato in questo modo distaccato, come una persona che guardando fuori dalla finestra e vedendo piovere, ne riporti il fatto alle persone all’interno della stanza, era segno evidente che ciò fosse già un dato di fatto. E, nonostante Elsa cercasse d’impedirlo, nascondendosi e guardando ovunque eccetto che verso il suo professore, ora l’unica pioggia era quella delle lacrime di lei, che le bagnavano irrefrenabili le guance.
Di certo era l’unico modo in cui avrebbe mai potuto immaginarsi Andrea dirle una cosa del genere: le finte tenerezze dei giri di parole, le scene pietose o le scuse plateali, non erano certo nello stile del professore: una persona che passa il tempo a ripetere che la morte è l’unica cosa certa nella vita, che viene definito esistenzialista dagli amanti delle sue poesie, di certo non perderebbe tempo a mentire a qualcuno solo per addolcirle una pillola amara da ingoiare.
In fin dei conti, lui, non le stava facendo niente di male, ad ascoltarlo parlare, anzi, si sarebbe potuto dire il contrario, che la volesse tutelare da lei stessa, che volesse tutelare la sua studentessa dalla sofferenza di amori inutili e non corrisposti. Ma oramai era tardi, questo il Professore lo ignorava.
Per lei era tardi per non soffrire: Elsa non riusciva ad immaginare, che una volta passata quella porta di casa, sarebbe stata l’ultima volta che ci avrebbe messo piede.
Per il momento, l’unica cosa che lei potesse fare era alzarsi, cercar di comportarsi da persona adulta, che accetta e rispetta le decisioni altrui, senza piagnistei inutili; per il momento, l’unica era sparire e andare a morire di dolore in silenzio, lontana dagli sguardi di lui.
Continuando a guardare ovunque pur di non guardarlo; passò davanti alla finestra, attraverso i fiori sul davanzale, arrivò in cortile un rumore di ruote sconosciute, era il momento dei saluti: Il taxi era arrivato.
L’idea della morte era veramente la migliore opzione che le venisse in testa, ogni secondo di più.
Preso lo scialle sulla sedia: «Allora…io vado». Andrea continuava a guardare il nulla fuori dalla finestra, senza girarsi: le aveva già detto addio da qualche minuto.
Il taxi aveva già sporcato il cortile col suo escremento umano, che fumava mentre aspettava la sua cliente: «Buongiorno».
Lei, senza neanche guardare il tassista, salì in macchina; rimase qualche secondo con lo sguardo verso la finestra del suo professore: Che fare ora?
Chiusa la pesantissima porta dell’auto, riuscì solamente a dire: «Alla stazione, per favore».
Sì, d’accordo, avrebbe potuto tornare a casa e far finta di niente, dimenticare il suo professore, ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscita. Oppure, sempre che la morte fosse la soluzione migliore, avrebbe potuto far fuori un tubetto intero dei sonniferi di sua madre, tagliarsi le vene in bagno o buttarsi dalla finestra. Avrebbe potuto fare qualsiasi gesto estremo: da quel momento sentiva di non aver più ragione di vivere: quella che per lei era diventata la vita fino quel momento, le veniva tolta, senza preavviso e senza possibilità d’appello: che differenza faceva suicidarsi o continuare a morire ogni giorno, per la mancanza di quel essere vivi?! Avrebbe potuto veramente uccidersi, sì, il suicidio sarebbe potuta essere la soluzione a quella sofferenza, ma non l’omicidio. Avrebbe sì, potuto togliersi la vita, perché qualcuno le aveva tolto la sua, ma lei non avrebbe mai fatto lo stesso a qualcun altro, nemmeno al suo peggior nemico, non lei, e tanto meno ad una piccola creatura innocente: mai avrebbe potuto, nell’uccidersi, portar con sé il figlio che da tre mesi portava in grembo, suo figlio. Il figlio suo, e del Professore.
Alla fine decise di prendere il primo treno per qualche destinazione lontana e sconosciuta, e scendere solo quando ne avrebbe sentito il bisogno.
E così fece.
*Andrea Giramundo, Montpellier 2016